di Maria Antonietta Sassani

Ancora una volta la giornata dell’8 marzo ci deve indurre a riflettere sulla condizione femminile, che non sembra confortante.
I problemi che ormai possiamo definire “storici” sono sempre aperti e non si intravedono vere soluzioni, come dimostrano i dati forniti dall’Istat, dal Censis, dal Cnel e da altri studi elaborati di recente.
Ogni giorno si registrano atti di violenza sulle donne e basta pensare che l’Istat ha calcolato per il 2020 un aumento delle richieste di aiuto del 71,7% rispetto all’anno precedente, mentre la Direzione Centrale Anticrimine ci informa che, sul totale delle vittime di sesso femminile, sono state vittime di femminicidio il 37% nel 2018 e il 49% nei primi otto mesi del 2019.
La rappresentanza femminile nelle istituzioni è sempre molto scarsa (30% circa sul totale di parlamentari, ministri, viceministri e sottosegretari) e si abbassa molto negli Enti locali (Regioni e Comuni).
Nel mondo imprenditoriale non va meglio: le donne manager sono il 27% dei dirigenti e, più in generale, la presenza femminile in ruoli di responsabilità è minoritaria.
Le donne continuano a guadagnare meno degli uomini e perfino il divario pensionistico è del 36,6%.
Se tutto questo non basta, possiamo aggiungerci gli effetti collaterali della terribile pandemia che stiamo vivendo.
Non vi è dubbio che le pesanti conseguenze dell’emergenza sanitaria, in termini di crisi economica e sociale, hanno colpito soprattutto le frange della popolazione più a rischio, fra cui le donne.
Ancora una volta sono i numeri, che, nella loro apparente asetticità, ci danno il quadro della situazione.
Da una relazione del Censis emerge che dei posti di lavoro perduti, il 55,9% è delle donne, ma sono i numeri in termini assoluti che ci danno la reale misura del problema.
Due dati in particolare: in un solo mese del 2020 (fra novembre e dicembre), le donne che hanno perso il lavoro sono state ben 90.000 (contro 2.000 uomini) e 470.000 nel secondo trimestre dello stesso anno (contro 371.000 uomini).
Il tasso di disoccupazione femminile è dell’11,8% , quello maschile del 9,7%.
I motivi di tali divergenze sono molteplici, ma, a ben vedere, la pandemia non ha fatto altro che far emergere e amplificare gli squilibri e le carenze preesistenti.
Le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria e la drastica riduzione dei consumi hanno colpito settori che vedevano una maggioranza di lavoro femminile (commercio al dettaglio, turismo, assistenza, ristorazione, attività alberghiera e immobiliare), già regolati da contratti a termine o part time, per non parlare del lavoro sommerso.
Molte volte la difficoltà di conciliare famiglia e lavoro induce alla rinuncia dell’attività lavorativa (l’Ispettorato del lavoro ha calcolato che nel 2019, 37.611 donne si sono dimesse dopo il parto).
Il lavoro part time (che riguarda il 32,4% delle lavoratrici, contro l’8,5% dei lavoratori), spesso non è frutto di una libera scelta delle donne (oltre il 60% non è volontario), e, comunque, comporta retribuzioni ridotte, meno possibilità di carriera e pensioni più basse.
Anche il lavoro da casa, spesso obbligato, sommato al maggior lavoro di cura richiesto dalle circostanze (chiusura delle scuole, mancanza di aiuti esterni), ha determinato per le donne, un sovraccarico di fatica e di stress che si è tradotto,  ancora una volta, nella rinuncia al lavoro retribuito (nel 2020 il tasso di attività femminile è calato di oltre tre punti). 
Questa è la situazione, ma se l’attuale crisi dovesse dar luogo ad una vera recessione, la situazione potrebbe peggiorare e aumentare le disuguaglianze di genere, annullando i progressi che le donne hanno faticosamente fino ad ora raggiunto.
E’ evidente che, dopo quelli adottati in emergenza, sono necessari interventi strutturali in campo legislativo e di politica economico-sociale, improntati al superamento di vecchi schemi e da valutare in un’ottica di genere.
Occorre, quindi, un profondo cambiamento e l’auspicata rinascita del Paese potrebbe essere l’occasione per attuarlo.
Quello su cui le donne potranno sicuramente sempre contare è la loro forza, saldamente e profondamente radicata nei secoli di storia che hanno alle spalle.
In proposito, mi viene in mente il breve racconto che ho letto in un settimanale qualche giorno fa, di venti ragazze che, in un paese romagnolo, durante la crisi del 1980, hanno occupato la fabbrica dove lavoravano e che stava per fallire, hanno costituito una cooperativa, raccolto i fondi necessari, rilevato l’azienda e salvato il loro posto di lavoro.
Oggi quella fabbrica, pur di modeste dimensioni, é solida e produce capi di abbigliamento di alta qualità, venduti in tutto il mondo.
Una piccola storia, ma ricca di significati, perché quelle ragazze hanno dimostrato di saper cogliere le occasioni, crearne di nuove, costruire sinergie, realizzare progetti e gestire un’azienda, ma soprattutto di aver fiducia in loro stesse.

Un bell’esempio,
che mi piace proporvi a conclusione di queste mie riflessioni, ed è con questa nota positiva che auguro a tutte le donne buon 8 Marzo.

foto da Smithsonian American Museum- Arthur Durston


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